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C.P.A Centro Psicologia Applicata

I dubbi di un terapeuta

 

Sono uno che spesso si chiede il senso di ciò che fa e di come sarebbero andate le cose se si fosse comportato diversamente e questo meccanismo lo porto anche nella mia attività lavorativa.

Negli ultimi giorni mi sono trovato a riflettere sulla mia professione e mi sono reso conto di come uno degli aspetti che la caratterizzi maggiormente sia il dubbio.

Cercherò di spiegarmi meglio: la psicoterapia è un’attività che di certezze ne ha poche, a partire da quelle che hanno a che vedere con la durata della stessa, per arrivare a parlare il perché farla e gli obiettivi da raggiungere. E si sa, quando ci sono poche certezze, crescono i dubbi.

Partiamo da una valutazione rispetto all’efficacia: se vi chiedessi quando una terapia è “andata bene” cosa mi rispondereste? Risposte del tipo quando i sintomi diminuiscono o quando la persona sta meglio possono essere buone ma non complete. Se, infatti, la maggior parte dei lavori ha un riscontro immediato e concreto che consente una valutazione di quanto fatto, ciò non è possibile per il lavoro terapeutico dove la causalità lineare non ha molto senso. In alcune circostanze un “peggioramento” momentaneo dei sintomi non corrisponde necessariamente ad un fallimento terapeutico. Nel momento in cui si toccano aspetti profondi e rimossi può, infatti, succedere che anziché star meglio, la persona possa apparentemente sentirsi più agitata, più triste oppure più arrabbiata e non sempre questo è sostenibile per chi decidere di intraprendere un percorso di cura.

In alcune circostanze “gli effetti” di un percorso terapeutico emergono in tutta la loro “potenza” dopo che questo è finito, come se avessero avuto bisogno di maturare dopo che i semi erano stati piantati tempo prima.

Altre volte, alcuni pazienti che giungono nel mio studio vorrebbero tante risposte che mi sento di non avere assolutamente. 

Intendiamoci, non sto parlando di quesiti tecnici o legati al senso di alcune dinamiche relazionali o interne, mi riferisco a cosa sia giusto e meglio fare nella vita e queste persone trovano sconcertante uscire da una seduta con ancora più domande rispetto a prima. Sembra impensabile vedere la propria situazione sotto un punto di vista differente dal solito e che tiene conto di questioni mai affrontate prima ma che hanno sempre avuto una grande influenza sulla vita.

Questo fa si che ci si trovi spesso di fronte a punti di vista differenti: quello del paziente, che ritiene che nulla stia cambiando, e anzi forse qualcosa stia peggiorando, e quello del terapeuta che si rende conto che ciò che sta accadendo è il frutto di un processo clinico che sta procedendo e che va nella direzione giusta. Spesso associo il processo terapeutico ad un’operazione di pulizia di una ferita: finchè non viene toccata sta lì e tutto sommato dà un dolore sopportabile. Quando però arriva il momento di disinfettarla, ecco che allora il dolore aumenta e ci si chiede chi me lo ha fatto fare. Se però medicando o meno una ferita vediamo gli effetti diretti di ciò che facciamo o non facciamo e possiamo renderci conto dei rischi concreti di non medicarla, tutto ciò non avviene in un lavoro terapeutico e questa incertezza è proprio alla base dei mille dubbi che nascono nella mente del “paziente” e del terapeuta.

La situazione poi si complica nel momento in cui non vi è piena congruenza tra paziente e persona che finanzia o che “suggerisce” la terapia. Occupandomi di terapia familiare, oltre che individuale e di coppia, spesso mi trovo al centro di una serie di dinamiche che hanno a che vedere con gli obiettivi della terapia. Un coniuge o un familiare può “portare” l'altro in terapia per lavorare apparentemente sulle dinamiche di coppia o familiari mentre sotto sotto vuole aiuto per "cambiarlo" ed ecco che non può esservi congruenza tra aspettative e lavoro fatto.

Andando avanti nel percorso terapeutico, tutti questi aspetti è inevitabile che emergano ed ecco che i dubbi nascono da entrambe le parti.

Che fare? non sapete quante volte mi sono fatto questa domanda nel sentire da una parte di dover lavorare su alcune questioni fondamentali e dall'altra percepire le resistenze di una persona. Oppure quanto spesso non avendo riscontri definiti rispetto a quanto fatto, mi sono ritrovato a chiedermi se avessi dovuto fare un intervento diverso oppure se era meglio evitare di dire una cosa o restare in silenzio quando invece avevo parlato e così via. Credo che queste sono domande che non mi abbandoneranno mai; ma allo stesso tempo ritengo che siano fondamentali perché mi porteranno a monitorare costantemente il mio operato che, se lasciato andare avanti col pilota automatico, rischia di portarmi in posti che non vorrei...

La soluzione ai dubbi credo che stia nel modo in cui si usano. Quelle sensazioni provate dal terapeuta o dal “paziente” sono infatti fondamentali nel processo terapeutico e possono essere utilizzate come un materiale da esplorare insieme. Insomma non ci sono risposte corrette in senso assoluto ma ciò che conta ritengo che sia lavorare su ciò che emerge nella stanza di terapia come frutto di quella relazione particolare. Questi dubbi di cui stiamo parlando hanno una rilevanza enorme perché al loro interno nascondono elementi fondamentali da prendere in esame proprio perché contribuiscono alla situazione di malessere che la persona vive nella propria vita.

Allo stesso tempo penso che questo lavoro di esplicitazione sia uno degli aspetti fondamentali del mio lavoro perché è alla base di una relazione buona e autentica, e credo che questo sia l’elemento più importante di ogni processo terapeutico.

Quasi mai è comodo o rassicurante stare nell’incertezza ma credo che è proprio quando non sappiamo dove stiamo mettendo i piedi che prestiamo maggior attenzione e utilizziamo al meglio le nostre risorse per analizzare la situazione e raggiungere i nostri obiettivi.

 

Dr. Daniele Regini 

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